Tunisi, 25 ottobre 2014
Si fa presto a dire laici
Le elezioni legislative del 2014 in Tunisia segnano il passaggio dalla fase di institution-building all’entrata in vigore di istituzioni democratiche “ordinarie”. La lettura dei risultati suggerisce di rivedere una serie di categorie con le quali finora è stato letto il caso tunisino (e anche le “primavere arabe”).
La prima di queste è la dicotomia laici/islamisti. La vittoria di Nidaa Tounès, il partito fondato dall’ottantottenne Béji Caid Essebsi - ministro sotto Bourguiba e sotto Ben Ali, capo del governo provvisorio post-rivoluzione - era largamente attesa. Ma chi è Nidaa Tounès? Di volta in volta definito come un partito di centro-destra, liberale, modernista, bourguibista nonché (dai suoi avversari) come il nuovo volto del disciolto Rcd di Ben Ali, su una cosa tutti in Tunisia concordano: non è un partito “laico”. Spunta qui uno degli effetti paradossali sortiti da tre anni di governo islamista: quello di avere alimentato un sussulto identitario di orgoglio musulmano anche tra gli avversari dell’islam politico. “Siamo tutti musulmani” è stata la reazione diffusa alla pretesa attribuita, a torto o a ragione, a Ennahdha di essere l’unico depositario dei sentimenti religiosi della popolazione. Il risultato è che questi sentimenti e le loro pratiche sono stati portati sempre più nello spazio pubblico dagli stessi antislamisti (si pensi alla preghiera serale in piazza al sit-in del Bardo durante il ramadan 2013): esattamente il contrario di quanto propugnato dal laicismo alla francese. E oggi dentro Nidaa Tounès è confluita una larga parte di quel ceto medio ideologicamente conservatore, socialmente benpensante e ostentatamente praticante che costituiva l’ossatura del Rcd e che Ben Ali si è ingraziato con l’istaurazione di un islam “di stato” usato in funzione di ordine contro l’islam “politico”.
La seconda chiave di lettura da rivedere è quella di Ennahda come partito incompatibile con un contesto democratico. Paradossalmente queste elezioni vedono il partito islamista al contempo ridimensionato e sdognanato. Che esso fosse logorato da tre anni di governo lo sapevano tutti; che il voto rappresenti una “sanzione” per la sua performance governativa pochi si sentono di negarlo. Ma la fuga di una parte del suo elettorato verso altre formazioni, tra cui Nidaa Tounès, costituisce una messa in pratica dell’alternanza democratica, sottolineata simbolicamente da Rachid Ghannouchi, il leader di Ennahdha che per primo si è congratulato con il suo avversario Essebsi. E il fatto che fin dal giorno dopo, a fronte di un parlamento dominato da due grandi partiti - Nidaa con 85 seggi, Nahdha con 69, tutti gli altri a grandissima distanza – il secondo dei quali sarà indispensabile per l’approvazione delle leggi costituzionali a maggioranza qualificata, si sia incominciato a ventilare la possibilità di un governo di “unità nazionale”, non fa che accentuare il paradosso. I partiti che si sono svenati, cedendo voti a Nidaa Tounès, per impedire il ritorno degli islamisti al potere, potrebbero aver sortito l’effetto opposto.
La terza griglia di lettura che salta è quella, applicata frettolosmante ai primi risultati parziali, della “bipolarizzazione” (come la chiamano in Tunsia dove non ne sono mai stati entusiasti) o più propriamente di una tendenza al bipartitismo. Vi sono almeno tre novità che vanno nel senso opposto. La prima è l’affermazione dell’UPL (Unione patriottica libera) del giovane e brillante miliardario Slim Riahi, uomo d’affari di successo nonché presidente del Club Africain, il maggiore club di football tunisino. Con un programma di riduzione delle disuguaglianze e di grandi progetti infrastrutturali nelle regioni periferiche, l’Upl che nel 2011 aveva avuto solo un seggio oggi è il terzo partito con 16 seggi. La seconda è il successo del Fronte popolare, che oltre agli operaisti del POCT include i partiti di Chokri Belaid e Mohammed Brahmi, le due vittime degli omicidi politici del 2013 (i cui mandanti sono tuttora ignoti),. Derisi come i “partiti dello zero virgola qualcosa per cento” nel precedent parlamento, oggi il loro raggruppamento è al quarto posto con 15 seggi. La terza novità è l’affermazione di Afek Tounès, piccolo partito di giovani tecnocrati liberali che, già presente nel 2011 con 4 seggi, li ha raddoppiati ed è al quinto posto. In altri termini, il “voto utile” dettato dalla paura degli islamisti - ma anche da quella opposta del ritorno del Rcd che ha spinto elettori lontani dall’islam politico a votare Ennahdha - non ha spazzato via tutte le formazioni minori ma solo la vecchia guardia dei partiti di opposizione già esistenti ai tempi di Ben Ali, spesso tacciati di opportunismo ma anche protagonisti di azioni coraggiose.
In una Tunisia che si rivela sorprendentement pluralista dovrà probabilmente ridefinirsi anche la collocazione delle forze in campo all’interno della familiare dicotomia destra/sinsitra (sempre che questa sia ancora pertinente). A questo fine, più che alle definizioni o autodefinizioni dei partiti (i due vincitori sarebbero l’uno di “centro-destra”, l’altro “conservatore”) sarà interessante guardare alle alleanze future: al momento nessuna combinazione tra i primi cinque partiti - che occupano 193 seggi sui 217 del nuovo parlamento - appare esclusa.
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Tunisi, 21 ottobre 2014
Vigilia delle elezioni legislative
Dopo le manifestazioni di chiusura della campagna elettorale – grandi, allegre, partecipate - è calato il silenzio sulla città. In centro certi negozi sono chiusi, nel mio quartiere è chiuso il Publinet e il negozio di frutta secca, ambedue aperti fino a tarda notte. Poca gente anche da Carrefour. La gente sarà andata a votare nel proprio paese o si è concessa una vacanza seguendo quelle scolastiche. É il Capodanno musulmano e si è mangiato la m’loukia. Qual è il bilancio di questa campagna?
Innanzitutto è un piccolo miracolo: che si vada a votare democraticamente già per la seconda volta, che ci si trovi a rivivere – sembra ieri! – la storica giornata di ottobre 2011. Che siano falliti i tentativi di far fallire il processo, che le elezioni si tengano quest’anno quando molti giuravano (e speravano) che fosse impossibile, che - delusi o no - tantissimi hanno partecipato alla campagna elettorale, si sono mobilitati, hanno fatto azione civica e politica, e soprattutto che di politica si parli agli angoli delle strade, e ancora più che ci sia tanta gente che la politica la fa, palesemente, per il gusto di farla. É questo il miracolo più grande di tutti, la nascita del politico in una generazione a digiuno fin dalla nascita.
In secondo luogo la Tunisia appare oggi un paese straordinariamente pluralista. Se non vi è più la polverizzazione delle liste che ha fatto il deserto dietro Ennahdha (seguita a distanza dall’outsider partito populista Al Aridha) oggi il paesaggio è variegato ma più strutturato.
In primo luogo vi è stata la formazione di un partito che si vuole di massa, a contrapporsi a quello islamista di Ennhdha. Con il nome di Nida Tunès (L’appello della Tunisia) l’anziano carismatico Béji Caid Essebsi, ministro sotto Bourguiba e sotto Ben Ali e poi a capo del governo provvisorio nei nove mesi di transizione tra la Rivoluzione e le elezioni per l’Assemblea costituente del 2011, ha creato una formazione che si vuole l’erede del vecchio partito Neo-destur di Bourguiba, ma ha anche incorporato abbondantemente elementi del disciolto Rcd di Ben Ali. Si assiste insomma al ritorno trionfale del vecchio partito – anticoloniale, illuminista, laico, statalista – che è stato a lungo l’unico partito di massa di cui ha avuto esperienza il Nordafrica nonché partito unico (o quasi) sul modello sovietico. Leggi recenti appoggiate – con sorpresa dei più ingenui – da Ennhdha hanno abolito l’esclusione dall’elettorato passivo dei vecchi quadri e militanti del Rcd, decretata subito dopo la Rivoluzione. Si è così sdoganato di un colpo non solo quanti avevano un passato Rcd (salvo essersi macchiati personalmente di crimini) ma anche la nota ma taciuta continuità tra il partito di Ben Ali (ora unanimemente condannato come dittatore) e quello di Bourguiba il quale è pur sempre agli occhi della maggioranza dei Tunisini il padre della patria. Significativamente, dal discorso pubblico delle ultime settimane (cioè esattamente dall'inizio della campagna elettorale, il 4 ottobre) è scomparsa totalmente la parola “Rcd” ed è comparsa l’espressione “i desturiani”. Quel termine che da sempre designa gli eredi di Bourguiba ora ingloba anche gli ex seguaci di Ben Ali, cioè colui che ha deposto Bourguiba con un colpo di stato (incruento). È un partito che tiene insieme ceti medio-borghesi e popolari, una larghissima parte della media, piccola e piccolissima borghesia di stato, radicato alle origini in strati intellettuali laici ma raggiunto oggi da una nuova borghesia di formazione recente e spesso di costumi islamici tradizionali che ha costituito la base dell'islam di stato di Ben Ali.
Al ritorno dei desturiani (che peraltro sono confluiti in altri tre o quattro partiti fa da contrappeso il recupero di Ennhdha, il cui consenso era stato logorato da tre anni di governo in condizioni difficilissime ma che ha ritrovato ampi consensi dopo che il suo governo si è dimesso per far posto ad un governo tecnico – mossa insieme generosa (il paese conosceva una gravissima lacerazione) e intelligente, poiché ritrovarsi le mani libere in campagna elettorale durante una transizione è un vantaggio. Se tra i desturiani, e perfino nelle formazioni laiche, interpretando gli umori popolari, in questi tre anni vi è stato un forte recupero dell’identità islamica, Ennhdha al contrario si è sforzato di uscire, nel suo discorso politico, dal dibattito identitario e religioso: adottando simboli, modelli comunicativi e slogan assai più modernisti, se non laici, che nel passato, e operando altresì nell’ambito di una nuova società civile fiorita dopo la Rivoluzione e le cui associazioni affiancano quelle più vecchie e più note (Associazione Tunisina delle Donne Democratiche, lega Tunisina per i Diritti dell’Uomo, ecc.). Questo, insieme ad una paziente e capillare campagna iniziata discretamente, come al solito, nei quartieri periferici e nelle regioni più povere, e basata sul contatto diretto con la gente e su molto volontariato sociale, sembra aver permesso al partito un notevole recupero.
Ancora più interessante è l’emergere di un terzo polo eterogeneo ma non frammentato come in passato, con formazioni liberiste (Afek Tunès), o esponenti di un islam critico come l’Upl di Mohammed Abbou, uscito dal Cpr, che potrebbe essere l’ago della bilancia di future coalizioni. Tali formazioni attirano un voto “di opinione” che vuole sottrarsi al “voto utile” a cui ha fatto appello sopratutto Nida Tunès ma che in parte oggi coinvolge anche l'elettorato di Ennahdha, un voto cioè per i partiti maggiori, onde evitare la dispersione dei voti delle elezioni del 2011, con l’ingente quantità di voti “buttati via” a causa degli effetti maggioritari indotti dal sistema elettorale. È un voto giovanile, colto, che si ritrova sia tra gruppi di sensibilità laico-modernista, sia tra gruppi di orientamento islamista: anzi, queste stesse categorie appaiono obsolete a fronte di giovani islamici modernisti o di laici che votano Ennahdha.
In questo variegato panorama elettorale l’esito appare aperto e per nulla scontato (i tunisini tra l’altro hanno appreso a diffidare dei sondaggi) tanto che molti affermano di aspettare i risultati “con impazienza” – espressione, che quando viene da giovani molto impegnati in partiti o ong mostra come la passione politica venga oggi temperata dal piacere della politica, con elementi ludici e di socialità.
Alla vigilia delle elezioni il contesto – tutto sommato tranquillo – è stato segnato dal tragico scontro con un gruppo terrorista che ha causato la morte di un membro della Guardia nazionale, quella di un ignaro passante, e quella di ben sei terroristi di cui cinque donne, sui vent’anni, tra cui una studentessa e la madre di due bambini miracolosamente sopravvissuti allo scontro. L’opinione pubblica ha manifestato più soddisfazione per la “brillante operazione” che raccapriccio per il numero di vittime e ciò la dice lunga sui riflessi condizionati di un paese reduce da vent’anni di regime poliziesco giustificato dalla lotta al terrorismo islamico. Ad occhi europei quel gruppetto asserragliato in un appartamento di una estrema periferia popolare, con donne che appaiono con il kalashnikov in una mano e tenendo il figlioletto con l’altra ricorda, assai più che i jihadisti delle montagne alla frontiera algerina, le nostrane Brigate Rosse o la banda Baader-Meinhof. L’episodio ricorda la fragilità di una democrazia che di fronte al ricorso alle armi – vengano esse da fuori o dentro il paese – può solo contattare sulla compattezza del popolo e il rifiuto di cedere al ricatto e barattare (di nuovo) la sicurezza con la libertà. Il responso delle urne indicherà anche questo: cioè quanto la libertà conquistata (con il sangue degli shahid, dei martiri, e non con le armi del jihad violento) sia diventata irrinunciabile.
*Chiara Sebastiani insegna al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Bologna
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